L’attività di traduzione e interpretariato per le istituzioni è prima di tutto un’ opera di mediazione. Le qualità fondamentali che una persona deve possedere per la traslazione in un’altra lingua, non solo in ambito istituzionale, ma a maggior ragione in questo, sono la memoria, i nervi saldi, la capacità di adattamento, il rigore, la concentrazione e una grande discrezione.
Per comprendere meglio le dinamiche delle attività di traduzione e interpretariato per le istituzioni, occorre operare una prima differenza sostanziale tra la figura del traduttore e quella dell’interprete. Il traduttore opera solo su testi scritti e viene impiegato, ad esempio, nella traduzione di accordi o trattati di pace. La Storia ci ha insegnato che questo processo non è sempre indenne da rischi e talvolta ha dato adito a una serie di malintesi che hanno causato lotte e rivendicazioni protratte nel tempo.
Si veda ad esempio ciò che seguì la stipulazione del trattato di Uccialli (1889), che doveva sancire i rapporti di amicizia e di commercio fra il Regno d’Italia e l’Impero d’Etiopia. Il trattato fu redatto in due lingue, l’italiano e l’amarico (lingua parlata in Etiopia), che diedero vita a due versioni del medesimo documento non prive di ambiguità. I problemi riguardavano soprattutto l’articolo 17 che nella versione italiana, sanciva, nei fatti, lo status dell’Etiopia come protettorato dell’Italia, mente nella versione ben differente in lingua amarica, lo stato etiope conservava la sua piena autonomia in fatto di politica estera, con la possibilità di ricorrere alla delega a Roma, nel caso fosse convenuto. Le incongruenze tra i due testi furono causa di incomprensioni e spinsero le due nazioni alla successiva Guerra di Abissinia – nella quale l’Italia perse rovinosamente – e del seguente trattato di pace di Addis Abeba, che abrogò definitivamente il documento di Uccialli, che tante incomprensioni aveva generato, e del quale è rimasta traccia solo nei libri di storia.
Altra figura è invece quella dell’interprete, largamente utilizzata dalle istituzioni come banche e tribunali e nelle trattative politiche. Se il traduttore traduce per iscritto, l’interprete, invece, traduce solo a voce e in contesti e con modalità molto differenti tra loro. La figura dell’interprete è una figura antichissima sulla quale vi sono molti aneddoti e resoconti che la documentano nel corso della Storia. Basti pensare ai diplomatici bilingui incaricati da Alessandro Magno di intrattenere contatti con i popoli sottomessi, agli interpreti stipendiati dallo Stato in epoca romana o ancora ai dragomanni in Egitto, che dialogavano con le tribù confinanti.
Prima del 1945, la modalità di interpretazione utilizzata nelle conferenze internazionali era senza dubbio l’interpretazione consecutiva che prevedeva la figura di un interprete per tradurre il discorso dell’oratore, una volta completato del tutto o almeno in parte. Nella modalità consecutiva, come è ovvio supporre, i tempi del dibattito sono lunghi e possono durare anche giorni. Uno dei principali protagonisti di questa modalità di traduzione fu Paul Mantoux, storico ed insegnante, che fece da interprete in alcuni tra i grandi momenti della Storia, alla fine della Seconda guerra mondiale, come la Conferenza di Parigi, nella quale si stabilirono i termini di pace tra gli Alleati e la Germania. Personalità forte, dalle spiccate capacità linguistiche, egli traduceva con grande precisione, avvalendosi soprattutto della presa di appunti.
Solo a partire dal processo di Norimberga, contro gli alti dirigenti del regime nazista, fu adottato, per la prima volta nella storia, un’altra forma di interpretazione: l’interpretazione simultanea. Le udienze furono tradotte in simultanea in inglese, francese, tedesco e russo, utilizzando una tecnica sino ad allora sconosciuta. Il Tribunale Militare Internazionale decise che i criminali di guerra dovevano ricevere un giusto e rapido processo. Per garantire ciò, era necessario che ciascuno si potesse esprimere nella propria lingua, con un sistema di traduzione veloce. Grazie alla tecnologia messa a disposizione dell’IBM, si costituì una squadra composta da cento interpreti, che poteva offrire una traduzione immediata dei testimoni, dando il via al più grande processo che la Storia aveva finora conosciuto. Gli stessi interpreti protagonisti del Processo di Norimberga furono successivamente impiegati alle Nazioni Unite.
Quando Tryggve Lie, il segretario generale delle Nazioni Unite, durante Norimberga dichiarò che il destino del mondo dipendeva in primo luogo dagli statisti, e in secondo luogo, dagli interpreti, aveva colto il cambiamento di un’epoca. Il ruolo di traduttori diventava sempre più fondamentale in contesti ufficiali come quello politico o quello diplomatico, e l’interprete doveva farsi carico di una grande responsabilità.
In questo quadro non mancano gli errori divertenti che fanno capire ulteriormente quanto difficile e non improvvisabile sia il lavoro dell’interprete.
Uno per tutti, la disastrosa traduzione del discorso ufficiale che Jimmy Carter, trentanovesimo presidente degli Stati Uniti, fece, durante la sua visita in Polonia nel 1977. In quella occasione, l’interprete, ingaggiato dalla Casa Bianca per tradurre i discorsi del presidente Carter, aveva una scarsa conoscenza del polacco e riuscì a tradurre frasi come “I left the United States this morning” con l’equivalente polacco di “Ho abbandonato gli Stati Uniti per sempre”. La reazione dei presenti fu naturalmente di sconcerto prima e di grande ilarità poi, con il conseguente imbarazzo da parte dell’ignaro presidente Carter.