Nella traduzione in pubblicità il testo scritto è uno degli elementi del messaggio, ma non sempre il più importante: al testo si accompagnano infatti le immagini, gli effetti visivi, la luce, il volume, i volti scelti per i protagonisti e la musica. L’insieme di tutti questi elementi determina lo storytelling, ovvero il racconto che una pubblicità crea.
Questa composita narrazione ha alcune caratteristiche specifiche che sono determinate dal contesto comunicativo nel quale la pubblicità è inserita: quello del consumo. Quali sono queste caratteristiche? Vediamole insieme:
A) La narrazione pubblicitaria, parte dall’analisi del pubblico di riferimento: il punto di vista del cliente diventa l’obiettivo.
B) La narrazione in pubblicità ha, prima di tutto, un aspetto funzionale: deve comunicare il valore del marchio e vendere i prodotti. Il tono di voce è quello persuasivo. Lo storytelling non porta mai all’acquisto del prodotto in maniera diretta, ma lo fa coinvolgendo, trasmettendo informazioni, emozioni e sentimenti, che creano un legame con chi ascolta. La chiave del messaggio pubblicitario è la promessa “leggera”.
C) La narrazione deve essere il più possibile originale e distintiva. La competizione con prodotti e marche potenzialmente simili affida alla pubblicità il compito di sottolineare le differenze, costruendo opposizioni, anche dove non ci sono. Fondamentale si rivela la capacità di creare un mondo ideale e valoriale che arriva allo spettatore attraverso modalità seduttive. Il prodotto partecipa al raggiungimento del piacere.
L’antenato nostrano della pubblicità è stato il Carosello, trasmesso dal 1957 al 1° gennaio 1977 sulle reti televisive italiane. Come sostiene Marco Giusti nel suo intramontabile Il grande libro del Carosello, il noto programma è stato il formato pubblicitario con più successo in assoluto: uno storytelling assolutamente originale che si nutriva di ogni tipo di spettacolo e dove tutto era possibile, dal cartone animato sperimentale a quello più classico, dal varietà al filmetto artistico.
La traduzione in pubblicità
Oggi, a differenza del mondo che attendeva il Carosello davanti alla televisione, esistono differenti forme di pubblicità, ognuna con regole proprie: la cartellonistica, la pubblicità tabellare, ossia quella sui giornali, la radiofonica, la televisiva e quella sul web. Ad allargare questo già complesso quadro di riferimento, si aggiunge il tema della pubblicità internazionale e quindi della sua relativa traduzione nei differenti mercati d’arrivo. Per tradurre un annuncio pubblicitario in un’altra lingua e cultura, molte agenzie di pubblicità hanno abbandonato la cosiddetta “struttura centralizzata” per essere in grado di declinare al meglio il messaggio pubblicitario a livello locale.
Simon Anholt, nel suo noto saggio Another One Bites the Grass, sostiene che per tradurre efficacemente un annuncio pubblicitario da un paese all’altro, debbano essere introdotte alcune regole proprie:
- Il traduttore deve tradurre pensieri e idee, piuttosto che parole. La pubblicità non è fatta di parole, ma di cultura.
- Il traduttore non deve mantenersi fedele allo stile del testo originale, ma alla funzione del testo, anche a costo di una totale riscrittura dello stesso.
Non conoscere il contesto socioculturale di riferimento può creare spiacevoli malintesi, vere e proprie gaffes, scarsa comprensibilità se non ancora il pieno fallimento dell’annuncio pubblicitario. Vediamo alcuni esempi.
A- Gli slogan
Alla fine del secolo scorso, David Beckham divenne uno dei principali testimonial di una riuscita campagna di educazione alimentare promossa negli Stati Uniti per incoraggiare il consumo di latte. “Got Milk?”, “Hai del latte?” era il famoso slogan. Quando fu il momento di esportare il messaggio in America latina, lo slogan si tradusse con “Tiene Leche?” che però in Messico significa “Stai allattando?”. Una domanda forse un po’ troppo personale e sicuramente non pertinente con lo scopo che si voleva raggiungere.
B – Il nome del prodotto
Involontariamente buffa fu la campagna commerciale di Coca-Cola in Cina. Il colosso multinazionale decise di adottare la traduzione letterale del nome del brand, “ke-kou-ke-la”, salvo poi scoprire che il suo significato non era così evocativo. La traduzione suonava qualcosa come “mordere il girino di cera”. Fu così necessario cambiare velocemente il nome del prodotto in “ko-ou-ko-le”: “felicità in bocca”.
C– Diversa cultura, differente efficacia
La casa automobilistica American Motor provò a promuovere la sua nuova vettura di punta, dandole un nome che evocasse energia e coraggio. Il nome scelto fu Matador. American Motor imparò, purtroppo a sue spese, che in alcuni paesi centroamericani l’impressione di energia e coraggio che il nome Matador avrebbe dovuto suscitare, non era per nulla efficace: a Puerto Rico, conosciuta per le sue molte strade pericolose, la parola “matador” veniva culturalmente associata al concetto di “killer”. Non esattamente l’effetto sperato.